Alessandra Rizzi
L’incontro con Monsignor Valentino Vecchi avvenne nel momento più delicato della nostra adolescenza, quando ci si avvia a costruire la propria identità personale, desiderosi di autonomia ma con
tante incertezze dal punto di vista psicologico, relazionale e affettivo.
I nostri dubbi e conflitti riguardavano anche la fede, la religiosità, Dio. L’incoscienza e la presunzione dell’età ci portava a dare risposte preconfezionate, di comodo a volte trasgressive.
Monsignor Vecchi, amante delle sfide e del dibattito, trovò terreno fertile tra noi e ci trattò con sensibilità e rispetto.
Seppe essere autorevole ma, allo stesso tempo, ci diede fiducia. Rafforzò la nostra autostima invitandoci a superare le paure, a esprimerci in pubblico, a partecipare e mettere a servizio della
Comunità di San Lorenzo i nostri talenti. Dotato di grande dialettica e capacità comunicativa, seppe rispondere alle nostre domande sulla fede, la vita, l’amore e la sessualità in modo semplice,
concreto, appassionato come solo i grandi educatori e insegnanti sanno fare.
Capì l’importanza che ha il gruppo dei pari per gli adolescenti e il desiderio di autonomia e libertà, ma anche le preoccupazioni delle famiglie in una città come Mestre ancora povera di spazi
per i ragazzi. Ci offrì la possibilità di stare insieme creando continue occasioni d’incontro e di preghiera in parrocchia e in luoghi ricreativi e culturali come S. Maria delle Grazie, il Sicar
di Oriago, il cinema Mignon, il Rifugio San Lorenzo.
Alla luce di quegli anni di crescita e formazione oggi possiamo intuire come sapientemente Dio si sia servito di questo Pastore per trasmetterci la bellezza e l’originalità del suo messaggio di
salvezza.
Siamo sicuri che anche il vigore di quella testimonianza di vita abbia contribuito a farci diventare gli adulti di oggi. Pur con molti limiti, cerchiamo di vivere con coerenza la nostra fede
negli ambiti nei quali siamo chiamati ad operare ogni giorno, nella nostra professione, con nostra figlia e nella comunità che ci accoglie.
Le esperienze e i ricordi di monsignor Vecchi sono molteplici. Devo fare uno sforzo per scegliere dentro la mente e il cuore gli episodi significativi che sono stati incisivi nella mia vita di
giovane e di adulta.
Fra i tanti ho pensato di scegliere tre momenti che mi sembra possano esprimere il sacerdote, l’educatore e il padre spirituale che mi ha accompagnato per un lungo periodo della mia esistenza.
Avevo 19 anni quando monsignor Vecchi arrivò a Mestre. Lavoravo in fabbrica e frequentavo con assiduità la parrocchia di San Lorenzo. L’ho scelto come padre spirituale: per cui ricorrevo a lui
come confessore e per tutti i problemi e le difficoltà che incontravo nella mia crescita umana e spirituale. Tanti erano i miei dubbi nella fede e sulla vita e con lui dialogavo. Rispondeva
pazientemente ai miei quesiti, mi correggeva e mi insegnava con autorevolezza. Gli ho voluto un gran bene.
Ricordo la sua sofferenza negli anni 70. Non capiva, non poteva capire quello che stava succedendo all’Italia, nella chiesa, nella sua comunità, nel mondo. Una mattina mi trovavo nel suo studio
quando ricevette una telefonate dalle Forze dell’Ordine che gli proponevano una scorta durante gli spostamenti, in quanto aveva ricevuto delle minacce serie. La rifiutò.
Oggi lo ricordo come un comandante sulla tolda della sua nave che non voleva, non poteva cedere e rinunciare ai principi che erano stati fondamenti della sua vocazione e della sua storia di uomo
e di sacerdote. Tante volte ne parlavamo condividendo le difficoltà relazionali all’interno della comunità e cercando la strada per superarle, senza creare divisioni irreparabili. Si poneva tanti
interrogativi ma mai cessò di amare coloro che la pensavano in maniera diversa da lui.
Fu qualche giorno prima della sua morte che con Oscar andai a salutarlo nella camera da letto. Fu contento di vederci, nella malattia le forze lo avevano ormai abbandonato. Ci dicemmo poche
parole, poi Oscar gli chiese di benedirci. Con nostro grande stupore raccolse le poche energie che aveva e si mise a sedere nel letto e ci benedisse con solennità.
Mons. Vecchi fu un uomo dalle enormi intuizioni, un uomo inafferrabile. A volte non condividevo tutti i suoi comportamenti o certe sue scelte, non capivo… In quei momenti esercitavo la virtù
dell’umiltà ascoltando l’affetto che avevo per lui. Aveva il potere di farmi sentire unica e nelle conversazioni era tutto per me, a volte anche staccando il telefono… Ma io sapevo benissimo che
le tantissime creature che lo frequentavano erano altrettanto uniche, l’accoglienza era il suo carisma.
Mons. Vecchi è stato un dono per me, per la mia famiglia, per la parrocchia di San Lorenzo, per la città.
La foto della Prima Comunione (San Lorenzo, maggio 1968: io con Monsignore che mi appoggia la mano sulla spalla, davanti alla porta principale della canonica) è sempre sul mio comò, in camera,
fin da quel giorno. Non potevo immaginare allora che quell’uomo così forte e imponente, sia nella figura, che nel carattere e nel ruolo che ricopriva, si trasformasse negli anni successivi in un
padre buono, finissimo conoscitore dei lati più intimi del mio cuore o dei bisogni più nascosti ma a lui molto chiari.
Era la metà degli anni ’70 quando, grazie anche alla mediazione di don Franco, monsignor Vecchi non era più quella persona che incuteva timore e soggezione, e ammirazione, come quando parlava
dall’altare nell’affollatissima messa della domenica alle 11, considerata per noi ragazzi troppo “seria e austera”. Cosa pensare, allora, quando dopo aver assistito alla messa dei giovani delle
10, seduto in disparte sull’altare, mi chiese di leggere una riflessione che avevo preparato per quella messa (festa dell’Immacolata) durante la “sua” messa delle 11? Noi, ragazzi di San Lorenzo,
avevamo fatto breccia nel suo cuore ed eravamo diventati anche figli suoi!
Il suo studio, accanto a quello di don Franco, era sempre aperto alla conversazione; la canonica era diventata la nostra casa. Mangiare a tavola, senza preavviso, qualche sera in compagnia dei
nostri sacerdoti, ci riempiva il cuore: la chiesa era anche lì, Dio ci parlava a mensa.
Monsignore sembrava attirato dal nostro entusiasmo e lo nutriva a sua volta: nell’estate del 1982, prima di partire per un indimenticabile viaggio in Grecia (eravamo 30 ragazzi del Club della
Graticola, guidati da don Franco) la sera della vigilia della partenza, ha voluto riunirci in chiesa, sull’altare, alle 20, per pregare insieme, darci la sua benedizione, i suoi preziosi
consigli, da vero padre, per un’esperienza così importante quale stavamo intraprendendo come gruppo di amici.
Era sempre lui che, alle 8 di mattina, si trovava all’Oasi (piccola cappella ricavata sotto il Laurentianum) ad accogliere alcuni di noi prima di andare a scuola: pregavamo insieme 10 minuti con
lui e facevamo la comunione. Eppure… si ripartiva ricaricati in un mondo che vedevamo con occhi migliori ed entusiasti.
E’ lo stesso entusiasmo che oggi, quarantenni cresciuti con questi esempi, cerchiamo di trasmettere ai nostri figli di fronte a un mondo non sempre accogliente e tollerante.
Giovedì 9 settembre 1971, ore 11.00, chiesa di San Girolamo a Mestre, ricca di densa spiritualità. La giornata è piovosa, grigia, il nervosismo e la tensione sono palpabili.
Corse in macchina, parenti in ritardo, telefonate concitate (per fortuna il telefono cellulare non è stato ancora inventato…), rinfreschi preliminari, formalità stressanti che ti fanno andare in
tilt.
La sposa si fa attendere… ma questo è rituale.
Finalmente lei appare, per me splendida, nel controluce della porta, i flash scattano… Sogno di una notte di mezza estate… le note di Mendelssohn coprono tutto, anche il rumore troppo forte di
chi sta ancora prendendo posto e le osservazioni bisbigliate, ma non troppo, di alcuni.
Siamo noi due, finalmente, di fronte all’altare e il Crocifisso ci guarda non so se con compiacimento, o con uno sguardo misericordioso… Entra il sacerdote: la chioma candida non lascia dubbi, è
mons. Valentino, è lui che presiederà alla celebrazione del nostro giuramento nuziale.
La sua voce profonda e calda, così amata ed ascoltata anche da chi si riteneva convinto di non credere, ma frequentava il Duomo per le sue omelie, passa come una rasoiata impetuosa e dolce
sull’assemblea. Con un brevissimo preambolo ci conforta, ci infonde serenità e ci assicura che quando noi ci siamo (e il Signore non manca mai a questi appuntamenti), tutto il resto è secondario:
lo stress da preparativi, i parenti in ritardo, il brusio dei presenti (che finalmente, d’incanto, si placa).
E il nostro matrimonio, finalmente, ha inizio nel clima giusto, con la sua “regia” liturgica discreta e penetrante che, a distanza di decenni, non abbiamo dimenticato.
Grazie monsignor Valentino.
Credevo di avere pochi ricordi di monsignor Valentino Vecchi, pochi ricordi meritevoli di essere condivisi. In effetti è così, non ho molti ricordi di monsignore: ho il Ricordo.
Monsignore è, direttamente o indirettamente, appartenuto alla mia vita per oltre 20 anni, strettamente legato alla vita della mia città e alla mia esperienza spirituale.
Un uomo apparentemente d’élite, difficilmente raggiungibile dall’uomo comune e anche dai giovani, un uomo definito da molti grande oratore, di grandissima levatura culturale capace di catturare
l’attenzione di un’assemblea intera solo per il suo modo di esporre l’omelia. Mi chiedo se non gli pesasse e disturbasse un po’ questa definizione: grande oratore. Lo ricordo spesso in
riflessione, tanto quanto nell’azione.
Guardando al passato, e a tutte le opere che è riuscito a mettere in piedi per Mestre, lo immagino significativamente preoccupato di assicurare alla sua comunità, ma specialmente ai giovani, un
concreto segno di ricostruzione per consolidare, nelle strutture e nelle persone, quello che lui pensava necessario per la vita di ogni uomo: avere un motivo per amare infinitamente.
Ho un ricordo di questa persona che non ha soluzione di continuità tra la vita e la morte, un ricordo che non ha soluzione di continuità tra le opere e la parola, quasi come se fosse stato capace
di intrecciare le due espressioni facendone una rete che raccoglie tutte le nostre memorie, senza mai disperderle, trattiene quei momenti di vita comunitaria resi possibili dal suo incessabile
desiderio di costruire e ricostruire con e per le persone la casa dove si cresce nella fede.
Il mio ricordo diventa un desiderio: ascoltare la voce dei suoi silenzi, incontrarlo nel deserto, sentire che la pace è la sua festa.
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